Il ritorno
Dietro tali pensieri, coglievo l’eco di un’antica forza: la convinzione infantile che il mare libico fosse una porta aperta e che il desiderio di un’antica conoscenza della natura, fattosi meno forte con il passare degli anni, stesse tornando ora, senza intralci, rinnovato. Non intendo un generico senso di viaggiare, non la curiosità da turista per siti, pietre miliari, lingue e facce nuove, ma la nitida e semplice convinzione che il mondo mi fosse accessibile. Ma non era una cosa strana da pensare,adesso che finalmente ero a casa? O è questo essere a casa: casa come luogo dal quale l’intero mondo tutt’a un tratto è accessibile.
Cairo, marzo 2012: l’autore è in procinto di imbarcarsi insieme alla madre e alla moglie Diana su un volo per Bengasi. Un volo che ha il compito di attraversare trentatrè anni di vita di Hisham Matar e della sua famiglia: nel 1979 la famiglia Matar decide di lasciare il Cairo, dopo che il padre Jaballa, oppositore del regime di Muammar Ghedaffi viene sequestrato nel suo appartamento al Cairo e sparisce. La famiglia non ha mai smesso di cercare Jaballa, prigioniero nella famigerata prigione libica di Abu Salim. La rivoluzione del 2011 offre alla famiglia Matar uno sprazzo di speranza. Il fratello Ziad si reca immediatamente in Libia, Hisham attende l’anno dopo. Il viaggio in Libia è la geografia della famiglia: Bengasi e Agedabia, Misurata e Beida, Tripoli e Sirte. Luoghi dove la famiglia Matar affonda la proprie radice, dove numerosi famigliari tutt’ora vivono e dove si trovano coloro che, per decenni, ad Abu Salim hanno conosciuto Jaballa e vogliono contribuire con la loro storia alla ricerca della verità. Il viaggio in Libia è anche la storia libica del ventesimo secolo, dalla resistenza all’occupazione italiana, dagli anni del regime di Ghedaffi fino alla rivoluzione del 2011, senza sconti e senza filtri: il regime è quello dei sequestri, delle torture e degli orrori più raccapriccianti.
Un romanzo intenso e straziante, un’attenta analisi dell’autoritarismo e una profonda riflessione sull’esilio, sulle consolazioni dell’arte e della bellezza come autentica espressione dell’uomo. Una doverosa e necessaria lettura di revisionismo storico.
Quando si costruisca qualcosa, presumiamo che lo si faccia per necessità, con uno scopo, o perché lo si desidera. Perciò associamo l’incompiutezza a una negligenza e un disordine deliberati, o a un’improvvisa debolezza. Questi edifici lasciati a metà mi sembrano più di un affronto, più offensivi e addirittura più opprimenti di un edificio finito e crollato in tempi difficili. E’ un fenomeno così diffuso – muri esterni senza intonaco, grezzi – che è difficile non vedervi una mancanza di autostima. Le nostre case non finite, in altre parole, sono un riflesso del nostro presente. Come noi le abbiamo costruite, così esse definiscono noi.
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