Leica Format
Il numero sul braccio di Sergio de Simone, 179614, è il numero della memoria, appartenuto a qualcuno, e ce ne sono altri di numeri simili..
Il numero 179614 va ricordato perché, come dice Wislawa Szymborska, il numero arrotondato e dimenticato dalla storia è come se non fosse mai esistito. Ci sono molti numeri simili immagazzinati nella memoria terrena e nuovi che continuano ad aggiungersi.
Istantanee che sono storie e geografie, volti e pagine di letteratura, attimo di vita e istanti che compiono il destino di uomini, donne e paesi. Fotografie che raccontano momenti e che mostrano come tutto, o quasi, sia legato da un fil rouge che attraversa i secoli e i confini. Capitoli che spaziano da Calvino a Pessoa, da Sebald a Eliot e a Baudelaire. Pagine che raccontano di città, della complessità delle lingue e di come può diventare ossessivo un accento all’indomani della fine della guerra nella ex Jugoslavia, quando i nazionalismi iniziano lo scontro delle lingue.
E poi ci sono storie di donne, come quella di Antonia Host e Lydia Paut, quella della follia di Zivka che si intreccia con quella di Ludwig Jacob Fritz, la storia di un pianista che ha perso la memoria e le storie delle tante donne senza nome che hanno attraversato la vita e gli oceani. Fotogrammi di Storia che sono le storie degli esperimenti genetici, dell’Olocausto e dell’ impunità di coloro che hanno commesso quelle aberrazioni. Immagini nitide in bianco e nero di strade, angoli poco conosciuti, cartoline con indirizzi sbiaditi e palazzi in decadenza: edifici che hanno un carico storico ingombrante, che dovrebbero essere monumento alla memoria invece sono rovine da cui distogliere lo sguardo. E poi ancora immagini di Fiume, di Belgrado, di una famiglia in esilio, di ricordi, dei tempi della radio e delle traduzioni, dello splendore di Vienna e di epoche finite. Istantanee di ricordi, di memorie, di pensieri, di riflessioni, di domande e risposte e di domande senza risposte. Un romanzo intenso, dai colori delle immagini e dei ricordi che vanno dal seppia al bianco e nero, fino ai colori dei giorni nostri di storie vere e storie inventate. Un maestoso flusso di coscienza racchiuso dentro i margini di una Leica.
Dopo la seconda guerra mondiale, quando la città in qualche modo è ricucita assieme, nella speranza che il precedente rattoppo con il tempo svanisca. come col tempo, raramente, svaniscono le cicatrici dal corpo umano, in pochissimi ricordano L’Albergo dell’Emigrazione, come un hotel per migranti, perché tra le sue mura si producono imballaggi metallici, le macchine ronzano, la classe operaia cresce e si rafforza. Mentre oggi che non c’è più la classe operaia né la brillante intellighenzia, l’edificio dell’ex Albergo d’Emigrazione non è più niente. Un colossale edificio morto il cui interno, una volta pieno del vomito del dolore degli emigranti, di bozzoli di paura e speranza, oggi si rianima soltanto quando lo attraversa la bora danzando.
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