Dove bisogna stare
Georgia, ventiseienne, faceva la segretaria. Un giorno stava andando a comprarsi le scarpe; ha trovato di fronte alla stazione della sua città, Como, un accampamento improvvisato con un centinaio di migranti: era la frontiera svizzera che si era chiusa. Ha pensato di fermarsi a dare una mano. Poi ha pensato di spendere una settimana delle sue ferie per dare una mano un po’ più sostanziosa. Ed è ancora lì.
Lorena, una psicoterapeuta in pensione a Pordenone; Elena, che lavora a Bussoleno e vive ad Oulx, fra i monti dell’alta Valsusa, e Jessica, studentessa a Cosenza, sono persone molto diverse; sono di età differenti, e vengono da mondi differenti. A tutte però è successo quello che è successo a Georgia: si sono trovate di fronte, concretamente, una situazione di marginalità, di esclusione, di caos, e non si sono voltate dall’ altra parte.
Sono rimaste lì, dove sentivano che bisognava stare.
Le protagoniste
Elena, Ulzio – Val Susa
L’inizio ideale di questo viaggio nella frontiera alpina italiana parte dalla terra di confine dove in questo momento la tensione è più alta: la zona tra Bardonecchia e Briançon.
Ultimo lembo della Val di Susa nella parte italiana, in questo tratto della frontiera occidentale dall’inizio dello scorso inverno, uno degli inverni più gelidi e innevati degli ultimi dieci anni, molti migranti che non trovano la possibilità di attraversare il confine blindato di Ventimiglia/Menton si sono riversati a Bardonecchia per tentare di giungere in Francia passando per le montagne.
Ma su quei colli a quasi duemila metri d’altezza, con delle scarpe da tennis e un abbigliamento assolutamente inadeguato al rigido clima, la morte è un destino quasi sicuro. Se il passaggio dei migranti verso la Francia non si è trasformato in una mattanza lo si deve esclusivamente a tante persone che dalle due parti della frontiera si sono mobilitate spontaneamente e organizzate per aiutare i migranti innanzitutto ad acquisire consapevolezza del pericolo e a prestare soccorso e assistenza a coloro che ci avevano comunque provato. In Val di Susa la risposta della popolazione a questa emergenza è stata immediata e diffusa: chi conosce la Valle non può stupirsene affatto perché si tratta di una zona (forse unica in Italia) abituata da sempre a mobilitarsi per lotte vecchie e nuove e ad affrontare con movimenti nati dal basso situazioni difficili, come non ultimi gli incendi che hanno devastato i versanti delle montagne nello scorso autunno.
Elena, donna che vive ad Ulzio, in alta val di Susa, è figlia di questa valle e della sua cultura. Come per molte altre persone, per Elena occuparsi del nuovo fronte aperto a Bardonecchia è fisiologico. Elena lavora presso un istituto superiore che si occupa di formazione, e conduce una vita intensa e impegnata, ma nonostante tutto non si è tirata indietro quando si è trattato di affrontare forse uno dei casi più difficili: un giovane camerunense salvato in extremis da alcuni volontari sulle montagne ha corso il rischio dell’amputazione dei piedi per congelamento e dopo una degenza in ospedale, che non poteva protrarsi ancora, occorreva trovare una soluzione temporanea ma stabile. Elena ha aperto la sua piccola casa a questo ragazzo decidendo di ospitarlo e seguirlo fino a quando non riuscirà a trovare almeno una sua autonomia di movimento. Elena non è sola in questo perché può contare sulla rete presente in valle, ma il suo gesto è tanto straordinario quanto normale, come quello di Georgia e Lorena: decidere di fare in prima persona una cosa grande e semplice cioè guardare l’altro negli occhi e riconoscere in lui quella parte di umanità che dovrebbe renderci tutti simili.
Georgia, Como
Como è terra di frontiera, la Svizzera è appena fuori dal centro cittadino. È una frontiera che non si percepiva da almeno quarant’anni: oltre confine si parla italiano; molti dei cittadini lavorano in Svizzera, per i salari più alti; e molti svizzeri vengono a fare la spesa in città, per i prezzi più bassi. Anche negli ultimi anni era un passaggio relativamente tranquillo per persone di origine straniera – con diritto d’asilo o senza – che andavano verso il Nord Europa. A luglio 2017 la guardia di frontiera svizzera cambia politica, e comincia a respingere sistematicamente. Nel giro di pochi giorni, fra la stazione ferroviaria di Como San Giovanni ed il parco antistante cominciano ad accamparsi i migranti bloccati.
Georgia ha 26 anni e ne dimostra meno. Faceva la segretaria in uno studio medico. Un giorno di quel luglio doveva andare a comprare un paio di scarpe. Saputo dell’arrivo dei primi migranti in stazione ha allungato per comprare una decina di spazzolini e qualche tubetto di dentifricio; si è trovata davanti 80 persone. Ha deciso di spenderci le ferie. Da quel momento, sostanzialmente, non ha più smesso.
Dopo lo sgombero della stazione, lei e il suo gruppo s’inventano ospitalità in parrocchia; cosa non priva di ironia per Giorgia, che è atea e che con i preti non aveva mai avuto molto a che fare; vanno “in giro di notte a cercare case abbandonate”, mediano con i poteri e con i migranti. E poi accompagnamenti in ospedale, documenti, burocrazia, una babele di lingue. Georgia non ha una militanza alle spalle, né esperienza di accoglienza; si inventa tutto, giorno dopo giorno, per prove ed errori. Nel gruppo è la più presente, il punto di equilibrio e di soluzione delle questioni. Pur essendo la più giovane, tutti le riconoscono autorevolezza. É il capo.
Georgia non si perde in ragionamenti, non ama le lunghe discussioni: incontra, fa, e risolve, incontra, fa e risolve, senza sosta. La vediamo nei pasti collettivi in parrocchia, con sua mamma e sua nonna, entrambe volontarie; la seguiamo in Questura, con un plico di richieste e documenti. Scopriamo con lei uno sportello legale improvvisato, autogestito ed integralmente femminile. La vediamo aggiornare un suo quaderno, in cui annota ogni storia che è riuscita a farsi raccontare. Sono centinaia, quelli nel quaderno. Ed altre centinaia sono gli incontri più fuggevoli, gli sconosciuti da ogni angolo di mondo che per strada la fermano e le chiedono “Georgia!”.
Ha un carico di lavoro, di tensione, di trascuratezza di sé e dedizione all’altro che farebbe a brandelli un bufalo. Non esiste nel suo mondo una definizione per ciò che fa. Regge la situazione con una motivazione lineare e fortissima ed uno spiccato sense of humor, che spesso diventa sarcasmo. Interrogata sul passato, fatica a riconoscersi. Interrogata sul futuro, svicola.
Lorena, Pordenone
Lorena Fornasir, 64 anni, psicologa clinica e psicoterapeuta, ha diretto per molti anni il servizio adozioni dell’ASL di Pordenone. Da poco più di due anni è in pensione. Da vent’anni convive con Andrea Franchi, un ex professore di filosofia bolognese di 84 anni.
Incontriamo Lorena e Andrea nella prima periferia di Pordenone, di fronte ad una vecchia area industriale ormai vuota da anni, che tutti chiamano “jungle”. È uno dei luoghi in città in cui trovano riparo Pakistani, Afghani e Bengalesi che non riescono ad entrare nei percorsi di accoglienza istituzionali. Sono per lo più ragazzi tra i 18 e i 25 anni. L’area è delimitata da alte reti di alluminio in cui dei piccoli cartelli bianchi vietano l’accesso per pericolo di crollo. Nonostante l’età, Lorena e Andrea scavalcano con agilità e ci invitano a seguirli.
Nella jungle incontriamo una decina di ragazzi per lo più pachistani; accolgono Lorena con grande affetto, raccontano che durante la notte è arrivato un piccolo gruppo dal Nepal, alcuni senza scarpe, altri ammalati. Jamal mostra un brutto eczema dietro l’orecchio destro e Lorena annota sul suo taccuino i nomi di tutti e dà loro appuntamento nel pomeriggio per consegnare coperte, scarpe e farmaci. Ci spiega che tutto è cominciato nell’autunno del 2014 quando, dalla rotta balcanica hanno iniziato ad arrivare in città decine di persone ogni giorno. La prima ondata ha trovato le istituzioni locali impreparate e le grosse organizzazioni umanitarie e di volontariato, come Caritas e Croce Rossa, prive dei mezzi necessari per affrontare la situazione. É nata così spontaneamente una rete di solidarietà di cittadini che si sono auto-organizzati per garantire una prima assistenza dignitosa. Inizialmente attorno ad un accampamento in un grande parco in pieno centro, e poi organizzando anche manifestazioni e sit-in per cercare di dare una scossa alle istituzioni affinché si risolvesse l’emergenza. Dopo che il parco fu sgomberato e i richiedenti asilo re-distribuiti in vari centri di accoglienza del Friuli, nel gruppo di volontari ci fu una spaccatura tra chi, come Lorena, non poteva più fare a meno di dedicare le sue energie a sostenere i nuovi arrivati e chi considerava quella forma di assistenza controproducente per un’azione politica efficace. Per Lorena, la parola chiave è cura. “La cura non è assistenza, è la politica fondamentale per far sorgere un essere umano” ci dice. “Un bambino se non incontra una madre che ha questa politica di civiltà, che lo riconosce, non diventerà mai un soggetto, così come un rifugiato se non incontra chi lo sa sognare con i suoi stessi sogni rimarrà sempre soltanto un numero identificativo”.Oggi il problema maggiore è riuscire ad entrare nell’hub costruito appena fuori città. Prima di riuscire ad essere inseriti nel percorso di asilo, infatti, passano in genere due o tre mesi durante i quali le persone vivono per strada senza poter lavorare. In quel limbo in cui molti restano bloccati ogni giorno Lorena diventa fondamentale, portando aiuti, informazioni e attenzione a chi altrimenti deve rifugiarsi nella jungle.
Jessica, Cosenza
Jessica è la più giovane delle quattro. Ventidue anni, poco più di un metro e mezzo di statura, sempre incazzata, è il centro di gravità di una grossa occupazione abitativa in centro a Cosenza.
In via Savoia, dentro un edificio abbandonato che ospitava gli uffici dell’ATER, vivono quasi ottanta persone. Famiglie, singoli, gambiani arrivati da poco in Italia, marocchini che ci stanno da vent’anni, italiani. Bambini, adulti ed anziani. Non fa alcuna differenza. Per Jessica non ci sono italiani e stranieri: ci sono persone che condividono un bisogno radicale, il bisogno abitativo, e che si organizzano per risolverlo assieme.
Non c’è nessun umanitarismo nelle motivazioni di Jessica: se occupa non è per dare una mano a qualcuno di più sfortunato di lei; è perché lei stessa ha questo bisogno. Casa sua è una stanza al primo piano; un bagno condiviso con altri tre nuclei; lo spazio comune dell’occupazione, che è una stanzetta in cima alle scale, un vasto cortile di cemento, e la guardiola all’ingresso in cui a turno gli occupanti stanno di guardia, cantano, chiacchierano e fumano sigarette, per non farsi trovare impreparati da un possibile sgombero.
Da un’idea nata in collaborazione con Medici Senza Frontiere
Fonte ZaLab
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