Finché morte non sopraggiunga
Non posso peraltro fare a meno di dire che la zattera sta per sfasciarsi: presto morirò. Lo dico con assoluta serenità perché per me la morte è una faccenda quasi marginale, un banale incidente, un prevedibilissimo colpo di scena. Del resto, ho visto orizzonti sconfinati.
Due storie, due uomini, due mondi lontani nella storia e nella geografia. Il primo racconto è la storia di un uomo, che prende atto del proprio declino, della propria stanchezza verso il mondo e verso le parole e, valuta con sguardo più attento le occasioni perse, le persone solo sfiorate, i legami negati e gli attimi buttati al vento che ora hanno il sapore della solitudine e il suono del silenzio. Shraga Unger è un uomo anziano, un vecchio conferenziere itinerante per conto del Comitato esecutivo, che il venerdì sera si sposta da un kibbutz all’altro per far conoscere l’ebraismo russo, cambiando ogni tanto il titolo del suo lungo monologo.
Il secondo raccondo narra le vicende del nobile Conte Guilleme de Touron che nel 1095 parte dal suo feudo di Avignone verso la Terra Santa con una banda di villani, servi e disgraziati. un viaggio difficile, che affronta dapprima le avversità della natura, i luoghi impervi e le privazioni della lunga marcia per poi affrontare le avversità tra gli uomini della spedizione in un crescendo di violenza inaudita e senza senso.
Due storie che a distanza di mille anni una dall’altra, da una sponda all’altra del mediterraneo, raccontano il fondamentalismo, l’odio e la morte. Con uno stile lineare e conciso di introspezione delle pene di un uomo e corale nel corteo di improbabili crociati, Amos Oz affronta due storie di decadenza umana: Shraga combatte contro i mulini a vento e il Conte Guillaume de Touron non raggiungerà mai Gerusalemme.
Mentre mangio scorro i titoli del Maariv, facendomi aria sul viso con l’Haaretz, per mettere le mosche in fuga. Sorseggiando il tè do il cambio ai giornali: sfoglio l’Haaretz e uso il Maariv come ventaglio. Quanta cecità, dico io, quanta triste cecità domina su tutto. Se non diffidassi della retorica, direi anche: una cecità tragica.
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