Harvard Square
Ogni cosa al Café Algiers mi riportava ad Alessandria, così come riportava Kalaj a Tunisi e l’ algerino a Orano. Forse ci fermavamo lì tutti i giorni per recuperare la persona che avevamo lasciato in Nord Africa e ritornare al punto in cui evidentemente la nostra vita aveva preso una piega sbagliata, quasi cercando di ingessare il tempo finché la frattura e le crepe e le slogature non fossero guarite e l’ osso non si fosse rinsaldato.
Estate 1977, la maggior parte degli studenti è in vacanza o in Europa a tenere o seguire corsi intensivi in preparazione del dottorato. Un giovane studente ebreo, di origini egiziane, è rimasto in città e trascorre le sue giornate tra i cafè aperti e il tetto del palazzo nel quale vive, leggendo e studiando. Un pomeriggio qualunque incontra al Café Algiers un giovane tassista berbero, soprannominato Kalaj , diminutivo di Kalaschnikov, per la sua parlantina a raffica contro tutti e tutto. I due hanno in comune la provenienza mediterranea, l’ esilio in Francia, il senso di sradicamento e la lingua francese, con cui costruiscono un codice privato di parole e un angolo di mondo escluso agli altri. I due diventano inseparabili e trascorrono le giornate afose tra parole e aperitivi, cene e belle donne. All’ inizio del semestre invernale le cose cambiano e lo studente ebreo inizia ad avvertire un certo disagio alla presenza di Kalaj. Narrato in prima persona dallo studente ebreo, il romanzo racconta un’ amicizia intensa e impossibile, tra due giovani alla ricerca della propria identità: ” per gli arabi era un berbero, per i francesi un arabo, per la sua gente non era nulla, proprio come io ero stato un ebreo per gli arabi, un egiziano per gli stranieri e adesso un alieno per i protestanti bianchi americani.” Ottima la traduzione, che riesce a rendere alla perfezione la nostalgia della lingua francese di entrambi i protagonisti, una lingua che rappresenta, oltre al loro passato, la loro identità e il loro inesprimibile disagio.
Parlammo in francese, lingua che per la seconda volta in quella estate mi aprì una porta che credevo per me definitivamente chiusa. Mi piaceva parlare in francese con una donna. mi sentivo a casa. Alcune cose andavano dette in francese a una donna. Nulla che non si potesse tradurre o dire in inglese, ma certe cose in inglese non sarebbero venute in mente a nessuno, insomma non esistevano in una mente anglofona. E non erano le cose in sé e nemmeno le parole per esprimerle, che mi appassionavano, ma la loro inflessione emotiva, i sottintesi, la loro voce, la mia voce, la voce dei tanti che mi avevano parlato in francese da bambino e che adesso fluttuavano su ogni parola che pronunciavo…
Lascia un commento