Nel blu tra il cielo e il mare
A quei tempi non ero ancora nato. Ma quando entrai nel blu, quando diventai quello che diventai, Sulayman mi rivelò ogni cosa. Non lo capisco appieno, né pretendo che lo facciate voi. Ma forse potete convincervi, come sono convinto io, che esistono verità che sfidano altre verità e spingono il tempo a ripiegarsi su se stesso.
Il romanzo inizia nel piccolo villaggio palestinese di Beit Daras, dove da secoli vive la famiglia Baraka. Siamo nel 1947, prima degli scontri che portarono alla creazione nel 1948 del moderno Stato di Israele, anno che nella memoria collettiva palestinese è tramandato come al Nakba: la catastrofe che spinse migliaia di civili palestinesi fuori dalle proprie case privandoli della terra e trasformandoli in rifugiati nella propria stessa patria. La voce narrante è quella di Khaled, un bambino di dieci anni che, prima di entrare definitivamente nel blu, lo spazio tempo degli spiriti, racconta la sua storia e quella delle donne della sua famiglia. Una saga familiare che attraverso le generazioni si intreccia con la storia: dalle violenze del 1948 all’ esproprio dei territori palestinesi per i nuovi coloni, dalla fuga da Beit Daras all’approdo ai campi profughi. Decenni di storie che seguono le sorti dei numerosi membri della famiglia. Un romanzo epico, in cui si racconta il coraggio e la forza delle donne violate e umiliate dal nemico, la dignità e la fermezza dei giovani presi prigionieri e torturati, della vita nonostante tutto nella più grande prigione a cielo aperto del mondo contemporaneo. Nella desolazione dei campi profughi ci sono nascite, arrivi, partenze, compleanni, matrimoni: c’è un quotidiano fatto di dedizione, sacrifici e speranza. Una storia corale complessa e dolorosa che indaga il senso di appartenenza, di occupazione e violenza nella narrativa palestinese. Ho volutamente deciso di non menzionare i personaggi e i loro legami, per non scoprire la direzione delle storie e lasciare che sia il romanzo a condurre il lettore.
Sulla pelle di Teta Nazmiyeh c’ erano scritte delle storie. Quando ero un bambino di quattro o cinque anni facevamo un gioco con le rughe del suo volto. La nonna si segnava due puntini a caso sul viso e poi si appisolava. Io potevo svegliarla in qualunque momento, ma solo dopo che avessi trovato una traiettoria di linee che collegavano i due punti. La nonna stava anche mezz’ora con gli occhi chiusi, sapendo che mi sarei dedicato alla mappa sul suo viso.
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