Nel cuore di Yamato
Ricordo una conversazione di qualche tempo fa. A suo avviso la gente di Yokohama era più cosmopolita di quella di Tokio. Le avevo spiegato che, trattandosi di una città di mare, le persone erano abituate alla presenza degli stranieri. Ma per lei, un porto non basta a rendere una città cosmopolita. Gioca invece un ruolo più importante la presenza di chinatown. “Pensa a Kobe e Nagasaki” mi aveva risposto ” che hanno un quartiere cinese. Secondo me, anche i loro abitanti sono più cosmopoliti della gente di Tokio. Hanno una mentalità più aperta, accettano culture diverse.” L’ascoltavo, interessato.
Cinque personaggi, cinque capitoli, cinque fiori e cinque storie legate da un fil rouge che attraversa epoche e luoghi del Giappone e del mondo, dal dopo guerra in poi. Vite private e professionali che si intrecciano a seconda delle scelte dei personaggi: chi accetta la ferrea disciplina in nome della rinascita nel dopoguerra, chi ne prende le distanze fisiche e geografiche e chi semplicemente si realizza chiudendo una porta e attraversando una strada per la passione della scuola e della musica. Le donne sono schiacciate dal peso di un patriarcato che impone matrimoni per mantenere un assurdo sistema di caste che porta a una lotta impari per l’affermazione e la ricerca della libertà. Su tutti incombe un passato difficile con cui convivere: dalle deportazioni in Siberia, ai suicidi dei familiari, alle dolorose verità svelate.
Un romanzo intenso, che porta il lettore dentro la Storia di un paese, anticamente chiamato Yamato, nella storia autentica e senza filtri delle persone che sono il vero Giappone, nonostante tutto e a prescindere da tutto. Un libro che racconta la complessità dell’amore attraverso i gesti e le tradizioni di una cultura.
Koji mi racconta un aneddoto molto interessante che gli ha riportato un collega sull’ambiguità di certe espressioni giapponesi. Nixon ha chiesto a Sato di accettare la riduzione delle nostre esportazioni di prodotti tessili, e lui ha risposto zensho shimasu, prendere le misure opportune. Sato ha usato questa formula per evitare di dire “no.” Tuttavia in inglese è stata tradotta con I’ll do my best. Ovviamente Nixon ha pensato che si trattasse di una risposta affermativa: per gli americani esiste solo si o no. Rido.