Ultimi dispacci di vita palestinese in Israele
Quanto è difficile vivere con questa sensazione, quanto è dura questa eterna paura del futuro, questa sensazione che devo essere pronto al peggio. La sensazione che nel giro di un attimo tutto quello che ho potrebbe andare perso. Che la casa non è mai una certezza e che la condizione di profugo è una spada sospesa sopra di me.
Il quotidiano progressista Ha’aretz ha affidatto una rubrica allo scrittore palestinese Sayed Kashua. Grazie a un irresistibile connubio tra gli aspetti più intimi e personali della vita dell’autore e la situazione storica e politica di Israele, la rubrica di Kashua è diventata un appuntamento imperdibile per i lettori. Questo libro raccoglie gli scritti più importanti dal 2006 al 2014. La raccolta è il ritratto caotico e personale della vita di un uomo eccentrico, di un palestinese nato a Tira, nel nord di Israele da genitori palestinesi e cresciuto in Israele, che scrive in ebraico pagine che rivelano la sua vita: il rapporto con la moglie, con i figli e i genitori, con i vicini di casa nel quartiere ebraico di Beit Safafa, con gli amici, con i lettori, con il lavoro, con la bottiglia e le notti insonni. Con ironia e profondità di pensiero i dispacci raccontano gli israeliani e i palestinesi, l’intifada e la militarizzazione del Paese, i livelli di sicurezza, lo scacchiere internazionale, i trattati di pace, e poi Ben Gurion e Golda Meir e la vita di arabo palestinese nato e vissuto in Israele. Un paese alle prese con il presente, con la Storia e la Geografia: una narrazione collettiva a cui palestinesi e israeliani possono guardare e riflettere insieme. Epilogo e mondo reale: nel 2014, in seguito agli scontri a cui è seguita l’operazione Marghine di Protezione e l’approvazione della legge che definisce Israele “Stato della Nazione Ebraica” l’autore ha deciso di emigrare a Chicago con la famiglia, affermando che la ” coesistenza tra ebrei e arabi ha fallito.”
Ai miei figli vorrei dire una cosa diversa. So che se un giorno vorranno andare a studiare lontano o abitare in un paese straniero mi si spezzerà il cuore, ma sento il dovere di procurare loro un biglietto di andata. Sento che è giusto prospettare loro questa possibilità. Mi riempio di sensi di colpa quando penso ai miei figli, cui ho imposto lo stesso stile di vita che è stato imposto a me.
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